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28/03/2025

L’uomo delle domande

In Altre / Storie di Mario Calabresi, un ritratto di Nicola Piepoli, che si avvicina ai novant'anni e con i suoi sondaggi riesce sempre a prevedere in che direzione va il nostro Paese.

“La prima volta fu a undici anni, era il 1946. Mio padre comprava molti giornali e riviste e sul settimanale “Oggi” c’era un sondaggio Doxa, l’istituto di ricerca che era appena nato, che diceva che al referendum avrebbe vinto la Repubblica di 12 punti. Ricordo la discussione a casa. Una settimana di dibattito in una famiglia monarchica, con mia madre, piemontese di Asti e fedele ai Savoia, che diceva che non era possibile, che quel sondaggio era tutto sbagliato. Invece andò esattamente così. Quel giorno sono diventato appassionato di sondaggi e di futuro».

Nicola Piepoli sta per compiere novant’anni, da più di sessanta si occupa di capire gli italiani, li studia e li prevede. Per molto tempo è stato una presenza fissa nello studio di Bruno Vespa, nel telegiornale di Enrico Mentana, nelle redazioni dei giornali o a Palazzo Chigi, sempre con le sue cartelle e i suoi fogli, per spiegare i mutamenti nell’umore degli italiani o come sarebbero andate elezioni e referendum.

Io lo conosco dall’inizio degli Anni Novanta, ero molto amico di suo figlio Corso (a cui ho dedicato un capitolo del mio libro “Una volta sola” e questa newsletter) che me lo presentò durante la campagna elettorale per il sindaco di Roma vinta da Francesco Rutelli. Ricordo di essere rimasto affascinato dalla sua energia, dalla curiosità, dalle mille idee che metteva in campo ogni giorno e dal fatto che andasse ovunque a piedi. Era il suo modo di tenersi in forma senza andare in palestra o fare diete, a Milano raggiungeva perfino l’aeroporto di Linate a piedi. Mentre facevo l’università ho lavorato per lui e per molti anni, dopo la scomparsa di Corso, siamo andati a pranzo insieme il primo martedì di ogni mese.

Questa volta ci siamo incontrati a Roma, mi ha invitato nel ristorante dove ogni settimana, da tempo immemore, mangia sempre il solito piatto: gamberi al curry con riso pilaf. Volevo farmi raccontare la sua vita. «Ho studiato legge all’università di Torino, come professori ho avuto anche Norberto Bobbio, che faceva seminari per gli studenti nei fine settimana, e Luigi Einaudi, che durante l’anno accademico ci lasciò perché era stato eletto Presidente della Repubblica. Ma prima di andarsene prese alcuni di noi in disparte per darci dei consigli. A me, che facevo un po’ il primo della classe, disse: “Stai attento all’invidia, cerca di misurarti e di essere umile”. Devo dire che all’inizio non l’ho molto ascoltato e ho preso delle belle batoste, ma poi ho imparato la lezione».

Dopo la laurea va a lavorare in banca, ma la filiale a cui viene destinato è sempre vuota e lui vede che gli sportelli concorrenti dall’altra parte della strada sono sempre pieni. «Allora vado dal direttore e gli propongo di fare una ricerca tra i clienti e tra i passanti per capire cosa non funzionasse in noi. Ricordo ancora la sua risposta: “Piepoli, ma tu te le sogni di notte queste cose?” Era venerdì mattina e quando sono uscito sono corso alla biblioteca universitaria, di cui avevo ancora la tessera, e ho chiesto se avessero dei libri in cui si parlava di ricerche sulla gente. Ce ne erano ben cinque, tra cui uno che si intitolava: “Dieci anni di ricerche Doxa”. Ho studiato tutto il fine settimana, non ho quasi dormito, e il lunedì mattina sono tornato dal direttore e mi sono licenziato. Così è nata la mia professione di  ricercatore».

Prima trova lavoro in una società di ricerche di mercato, poi alla Montecatini, dove lo assumono come capo della ricerca. «All’inizio degli Anni Sessanta in Italia non c’erano ricercatori e nemmeno psicologi, ma c’era una grande richiesta di capire cosa pensassero i consumatori. Per il mio primo lavoro sul campo andai da tutti i rivenditori di un particolare tipo di vernici della provincia di Pisa. Su questo campione feci una simulazione per prevedere l’andamento del mercato italiano e quando si vide che era esatta mi diedero una promozione». Ma le vernici non gli bastavano, così si licenziò di nuovo e, insieme a quella che era diventata sua moglie, nel 1965 fondarono il CIRM, Centro internazionale ricerche di mercato. «Così ho iniziato la mia carriera di sondaggista, una qualifica che per molti che preferiscono farsi chiamare ricercatori è quasi un insulto, ma che a me piace molto».

A un certo punto ricordo Piepoli in televisione con Piero Chiambretti, un trionfo di notorietà per un sondaggista: «Ho fatto tre puntate e poi mi sono dimesso, anche se avevo un contratto per 40 settimane. Pensavo fosse utile popolarizzare il mio mestiere, ma presto ho capito che sviliva la mia professione. Me ne sono andato perché era troppo disonorevole buttare tutto in burletta».
Piepoli è stato il primo, nel 1982, a fare gli exit poll in Italia: li aveva importati dalla Francia e ricordo lo stupore di avere un risultato nel momento stesso in cui chiudevano le urne: «Gli exit poll danno risultati probabili ma hanno bisogno di molto studio e lavoro. Bisogna applicare ai dati che emergono dalle interviste fuori dai seggi dei correttivi. Ti faccio un esempio storico: nei sondaggi gli italiani comunicavano più volentieri il loro voto per il Partito comunista che per la Democrazia Cristiana. Chi votava comunista lo faceva con orgoglio, chi votava democristiano spesso lo faceva sottovoce. Per questo bisognava inserire nei sondaggi un indice di ponderazione per abbassare la percentuale del Pci e alzare
quella della DC».

Oggi succede il contrario: «Adesso la destra risulta avere più voti potenziali della sinistra, perché è più problematico dire che voti per il PD. Ma le cose si sono molto ingarbugliate, c’è più disinteresse e la gente preferisce dire che non vota». Gli chiedo come siano cambiati gli italiani in questi sessant’anni in cui li ha studiati ogni giorno: «Sono diventati in un certo senso più simili ai romani che ai milanesi. Cioè indifferenti, nel senso che gli diede Alberto Moravia. Cosa significa indifferenza? Indifferenza alla politica, al sociale, indifferenza al futuro. O, se preferisci, paura del futuro. Perché il futuro è considerato come qualcosa di immutabile e non come ciò che è in realtà: la somma delle volontà esistenti. Il futuro
siamo noi, questa è la cosa più importante da insegnare a un bambino».

Secondo Nicola Piepoli le priorità che stanno a cuore agli italiani non sono invece mai cambiate: «Non sono diverse da quelle indicate davanti al Senato di Roma, nel 54 dopo Cristo, dal futuro imperatore Claudio: “Panem et circenses”. Non è cambiato niente in venti secoli».

A scrutare gli italiani glielo ha insegnato suo padre e Nicola si commuove a ricordarlo: «Era il 20 giugno 1940, avevo cinque anni, e a casa di un mio zio fascista abbiamo assistito al discorso di guerra di Mussolini. Le parole del Duce avevano appassionato i parenti presenti, ma non mio padre che fascista non era e la guerra non amava. Così mi disse che andavamo a casa. Quando siamo usciti papà era
chiaramente turbato, camminavamo sotto i portici in via Cernaia a Torino, e lui mi disse di guardare la gente.

“Perché devo guardare la gente?”. “Per capire cosa pensano”. Vedo un ragazzo e una ragazza: lei piangeva e lui era vestito da militare. Mio padre mi chiese: “Sono allegri o sono tristi?”. “Sono tristi”. Poi incontriamo un gruppo, li guardo in faccia uno per uno, anche qui una donna piangeva e altri cercavano di consolarla. Poi un gruppo di uomini che discuteva con aria cupa. “Papà sono tristi anche loro perché
siamo entrati in guerra”. “Bravo, hai capito tutto”. Mi aveva dato una grande lezione, quella di osservare le persone e di leggere i loro sentimenti».

di Mario Calabresi